6. Storia dell’Economia (Marginalismo e Neoclassici)

L’epoca degli economisti Classici si chiude più o meno con Marx. Marx disse soprattutto una cosa: il Capitalismo imploderà su se stesso. Nascono qui (fra ‘800 e ‘900) una serie di economisti che reagiscono a Marx, prendono il nome di Neoclassici e dicono che il Capitalismo funziona benissimo perché è capace di auto-regolarsi.

Convenzionalmente, la scuola dell’economia neoclassica si data a partire dal 1871-1874, anni di pubblicazione delle prime opere sistematiche di William Stanley Jevons, Carl Menger e Léon Walras. Il marginalismo combatte sia lo sviluppo marxista del pensiero degli economisti classici sia la scuola storica tedesca dell’economia.In economia il marginalismo è una corrente di pensiero economico sviluppatasi tra il 1870 e 1890. La metodologia marginalista è quella che ancora oggi dopo il Monetarismo esercita maggiore influenza rispetto a quella classica e marxista.
Il nucleo centrale dell’analisi marginalista è da individuare nel rifiuto dell’idea classica secondo cui il valore di un bene coincide con il lavoro richiesto per la sua produzione.
Al contrario i marginalisti individuano il valore di un bene nell’utilità marginale che il consumatore trae dal godimento dello stesso, cioè il valore del prodotto riflette il grado di soddisfazione soggettiva che i consumatori attribuiscono ai diversi prodotti. La soddisfazione, o “utilità”, tenderà a diminuire con il consumo di ogni unità aggiuntiva dello stesso bene.

William Stanley Jevons

William Stanley Jevons (Photo credit: Wikipedia)

William Stanley Jevons (1835 – 1882) è stato un economista e logico britannico.

Per Jevons l’economia è una scienza del comportamento umano e deve basarsi sulla psicologia.

Nella sua Teoria dell’economia politica (1871), si propone di trattare l’economia come un calcolo matematico del piacere e del dolore e ne definisce l’oggetto come la massimizzazione della felicità mediante l’acquisto di piacere al minor costo in termini di dolore.

Un bene è un qualsiasi oggetto, sostanza, azione o servizio che può procurare piacere o alleviare un dolore; l’utilità è la qualità grazie alla quale un bene procura piacere o allevia un dolore. L’utilità, peraltro, non è inerente ai beni, ma è una loro circostanza che emerge in relazione ai bisogni umani. Soprattutto, l’utilità diminuisce con l’aumentare del consumo di un bene e viceversa.
Un bene può soddisfare diversi bisogni. La sua distribuzione su diversi utilizzi deve essere tale che la diminuzione di un utilizzo non comporti un dolore più intenso del piacere derivante dall’aumento di un altro.

Jevons stabilisce anche una Legge di Indifferenza, secondo la quale in un dato momento e in un dato mercato non possono esservi due prezzi diversi per lo stesso tipo di articolo. Da essa deriva che il rapporto secondo cui vengono scambiate le ultime quantità infinitesime di due merci in un atto di scambio deve essere uguale al rapporto secondo cui vengono scambiate le quantità complessive di esse. Ciò può accadere soltanto se nel mercato vi è una libera concorrenza perfetta  (è una forma di mercato caratterizzata dall’impossibilità degli imprenditori di fissare il prezzo di vendita dei beni che producono, i quali prezzi derivano esclusivamente dall’incontro della domanda e dell’offerta, che a loro volta sono espressione dell’utilità e del costo marginale).
Il valore, per Jevons, è sempre relativo: il valore di un bene non è altro che il rapporto secondo cui viene scambiato con altri, a sua volta uguale all’inverso del rapporto tra i gradi finali di utilità. Il prezzo è la quantità di moneta a corso legale con cui un bene può essere scambiato.

Carl Menger

Carl Menger (Photo credit: Wikipedia)

Carl Menger (1840 – 1921) è stato un economista austriaco (essendo Nowy Sącz all’epoca facente parte dell’Austria, mentre oggi è in Polonia).

Con la pubblicazione avvenuta nel 1871 de Principles of Economics, ovvero l’opera che ha gettato le basi della scuola austriaca di economia, di cui è il fondatore, Menger confutò la classica teoria del valore-lavoro sviluppata da Adam Smith e David Ricardo con sviluppo della teoria dell’utilità marginale.

L’utilità marginale di un bene è concetto cardine della teoria neoclassica del valore in economia ed è definibile come l’incremento del livello di utilità, ovvero della soddisfazione che un individuo trae dal consumo di un bene, ricollegabile ad aumenti marginali nel consumo del bene dato e costante il consumo di tutti gli altri beni. L’utilità marginale è, quindi, decrescente poiché al dimiuire di un bisogno diminuisce anche progressivamente il piacere ricavabile dalle dosi successive di un bene (principio dell’utilità marginale decrescente).

La legge del utilità marginale decrescente afferma che all’aumentare del consumo di un bene, l’utilità marginale di quel bene diminuisce.
Una volta raggiunto il punto di sazietà eventuali altri incrementi del consumo del bene probabilmente apporteranno una disutilità, diminuiranno cioè il livello di soddisfazione individuale. In corrispondenza del punto di sazietà l’utilità marginale è nulla ed il suo livello di utilità è massimo.

Menger chiarì che lo scopo della teoria economica era lo studio dei beni “scarsi”, i beni cioè che servono al perseguimento degli obiettivi degli uomini, ma che non sono disponibili in quantità sufficiente per realizzarli tutti. Di conseguenza, l’essenza dell’economia è l’azione in condizioni di scarsità.

Da questo principio Menger derivò l’intera teoria dei prezzi, operando un ribaltamento concettuale radicale rispetto alle precedenti teorie, secondo cui il costo di ogni merce dipendeva dalle spese monetarie necessarie a completarne la produzione. Menger ribaltò la faccenda, dividendo i beni in “ordini”: i beni del prim’ordine sono quelli che soddisfano un bisogno immediato, quelli del secondo ordine sono quelli necessari a produrre i beni del prim’ordine, eccetera. I beni del prim’ordine sono il “fine” dell’economia, in quanto i beni di ordine superiore rappresentano solo mezzi per raggiungere lo scopo, il conseguimento del fine. Ne deriva che il valore di un mezzo di produzione dipende dal contributo che può effettivamente dare alla produzione dei beni del prim’ordine, e non viceversa.

Viene quindi a ribaltarsi anche il rapporto tra fattori soggettivi e fattori oggettivi: sono la valutazione del fine, e la valutazione dell’adeguatezza del mezzo, due elementi “soggettivi”, perché individuali, che determinano i costi, e non sono gli immaginari costi “oggettivi” a determinare i prezzi.

Sempre dal principio del valore soggettivo si riesce a spiegare il perché dello scambio. Se si ritenesse, infatti, che il valore sia una caratteristica della merce, e non una valutazione dell’individuo che quella merce domanda o offre, lo scambio non avrebbe nulla da contribuire al valore: solo la produzione sarebbe un atto significativo per l’economia. Ma non è vero: se un individuo ha un abbondanza di un bene A e mancanza di uno B, e un altro ha un abbondanza di un bene B e mancanza di un bene A, scambiando i beni essi possono ottenere entrambi un bene superiore o completo AB: il risultato è vantaggioso per entrambi. Ma questo perché il valore è soggettivo: se fosse oggettivo, insito nella merce, lo scambio non potrebbe influenzare il valore. Se lo scambio dovesse avvenire solo tra merci di ugual valore (altrimenti, chi darebbe via un qualcosa per ottenerne un’altra di valore inferiore?), non ci sarebbe alcun vantaggio.

Léon Walras

Léon Walras (Photo credit: Wikipedia)

Marie Esprit Léon Walras (1834 – 1910) è stato un economista francese. Fu il “padre” della prima formulazione completa della teoria di equilibrio economico generale.

Nel suo scritto più importante: Éléments d’économie politique pure, ou théorie de la richesse sociale, (1874) Walras edifica la teoria dell’equilibrio economico generale che ha per obiettivo quello di spiegare la determinazione congiunta delle scelte di produzione e di consumo, e dei prezzi, nell’intera economia. La teoria deriva le sue conclusioni sulla base delle scelte di agenti individuali (consumatori, imprese) che operano in ciascun mercato.

Se ciascun agente soddisfa il suo vincolo di bilancio, cosicché il valore dei beni che compra è uguale al valore dei beni che offre, allora il valore totale delle vendite eguaglia il valore totale degli acquisti.
A seconda delle preferenze dei consumatori, la domanda di un bene sarà allora influenzata dalla variazione nel salario dei consumatori stessi, andando a incidere nuovamente sul prezzo del bene, e così via. Dunque, la determinazione del prezzo di un singolo bene risulta potenzialmente collegata a quella del prezzo di qualunque altro bene nell’intera economia.
La legge di Walras implica che, anche se esistono eccessi di domanda o offerta nei singoli mercati, la somma di questi deve essere nulla. Così, se in un mercato c’è un eccesso di domanda, deve esistere in un altro mercato un eccesso di offerta.
Corollario importante del teorema è quello secondo cui, se n-1 mercati sono in equilibrio, l’n-esimo mercato è anch’esso in equilibrio.

Walras edifica una teoria del valore secondo la quale il principio per la determinazione dei valori di scambio (prezzi) è fondato sul concetto di utilità marginale, che Walras esprime in termini di unità fisica di uno di essi. Walras arrivò a dimostrare come, in condizioni di concorrenza perfetta, è possibile determinare un sistema di prezzi d’equilibrio che comporta l’eguaglianza tra domanda ed offerta in tutti i mercati, nonché l’eguaglianza tra costo di produzione e prezzo di vendita per ciascun bene e per ciascun imprenditore.

Nel modello walrasiano, infatti, gli scambi di merci avvengono soltanto quando sia stato raggiunto un prezzo di equilibrio che assicuri la perfetta coincidenza tra domanda ed offerta: tale prezzo si forma soltanto in seguito a variazioni della domanda e dell’offerta in corrispondenza di diversi livelli di prezzi. Riprendendo l’esempio walrasiano si potrebbe immaginare l’esistenza di un ipotetico banditore d’asta che grida un prezzo e guarda se la domanda è uguale all’offerta. Se c’è una differenza, grida un prezzo più alto quando l’offerta è insufficiente e un prezzo più basso nel caso contrario. Dopo alcuni tentativi si giunge alla fissazione di un prezzo che assicura il perfetto equilibrio tra domanda e offerta.

In tal modo, viene eliminato il mistero della “mano invisibile” in quanto non ce n’è più esigenza: mentre in Smith e nei classici, l’equilibrio era determinabile in due stadi – il primo era costituito dalla dimostrazione dell’esistenza logica dell’equilibrio, il secondo dalla dimostrazione del modo per arrivarvi – con Walras i due stadi sono diventati uno solo: dato che la dimostrazione dell’esistenza logica dell’equilibrio incorpora anche come arrivarvi, la “mano invisibile” non è più necessaria.

Riassumendo, i tre economisti enunciarono indipendentemente l’uno dall’altro, teorie simili fra di loro:

  1. il valore di un bene non può essere imputato esclusivamente al valore-lavoro e al costo che si ha per produrlo, ma va ricercato principalmente nella sua utilità marginale, cioè il valore del prodotto è soggettivo al grado di soddisfazione che il consumatore attribuisce al prodotto; è un bisogno che deve colmare e sarà decrescente man mano che egli soddisfa questo bisogno; inoltre esso è strettamente correlato con gli altri beni presenti sul mercato, compresi quelli per produrre il bene stesso;
  2. il commercio, lo scambio che avviene di questi beni, è relazionato all’utilità dei beni stessi e al bisogno che se ne ha e risulta vantaggioso per entrambi gli interlocutori di tale scambio; quindi il valore è relativo allo scambio in sé, al bisogno reciproco;
  3. in un mercato di libera concorrenza perfetta il prezzo dei beni è legato al rapporto domanda-offerta, espressioni dell’utilità e del costo marginale, rapporto in continua variazione; il prezzo si determina automaticamente dopo alcuni tentativi che giungono al perfetto equilibrio tra domanda e offerta, cioè un equilibrio economico generale.

Quindi l’Equilibrio Generale dice: tutte le merci e servizi vivono in un loro equilibrio naturale, i loro prezzi si regolano da soli. Se il prezzo di una cosa aumenta, molti correranno a produrla, ma così ce ne sarà troppa sul mercato e quindi il prezzo ‘naturalmente’ scenderà. Se invece il prezzo di una cosa crolla, nessuno vorrà produrla, e così ce ne sarà poca e il prezzo ‘naturalmente’ si alzerà. In sostanza, ciò significa che il Mercato non deve avere interferenze da parte di nessuno perché si regola da solo.

Nella teoria dei Neoclassici esiste in cima al mercato un direttore d’asta che prende le offerte dei prezzi per ogni merce o servizio, e alla fine della giornata i prezzi stabiliti saranno quelli giusti, quelli in ‘equilibrio’ sempre. Questa roba poteva funzionare quando veramente si viveva di scambi granoturco o carne o ferro. Non oggi dove il denaro ha una funzione centrale. Infatti sti Neoclassici sono notori perché nelle loro astrusità economiche non considerano mai che il denaro esiste!

Dunque il libero mercato si regola da solo, ma c’è un direttore d’asta. Nella mia immensa ignoranza non riesco a comprendere come si possa partire da un presupposto (la libertà del mercato) per concludere con quello opposto (banditore d’asta). L’unica comprensione che ci attribuisco è che questo direttore d’asta sia un invenzione morale tanto quanto la “mano invisibile” di Smith. Nella realtà del mercato non esiste nessun direttore generale dei prezzi, per quanto ne so e ad esclusione di quello finanziario che non conosco, ma l’unica “direttiva” è il confronto tra il mercato stesso e il proprio bilancio, unito al rischio (perdita di profitto) o l’imbroglio (nel prodotto, il “bidone” per intendersi) se si fa il prezzo più basso, oppure all’eccesso di qualità o alla truffa (nel prezzo) se si fa quello più alto.

Comunque, per quanto riguarda la nuova valutazione del valore, e di conseguenza del prezzo di un bene, basata non solo sul costo in lavoro, tempo e denaro per produrlo ma anche sulla sua utilità e valore intrinseco in quanto più o meno necessario ai consumatori e al loro grado di soddisfazione soggettiva, la trovo una valutazione corretta a patto che si tengano in considerazione tutti questi elementi, perché la nuova osservazione è più un valore aggiunto. Però è un valore aggiunto che, secondo me, si può attribuire soltanto ai beni fisici, ai prodotti che si consumano, che si usano. Non al denaro stesso.

Nel caso del valore relativo nel commercio, o scambio, la considero una teoria nata nell’epoca sbagliata, in quanto sembra una considerazione fatta per il commercio del baratto, cioè del diretto scambio di oggetti e beni, non di una compravendita beni-denaro, in quanto per la parte che riceve il denaro è lapalissiano che sia vantaggioso, che ne riceva un utilità, che risponda ad un bisogno. Tutti hanno bisogno di denaro. Quindi non comprendo come si possa stabilire un valore determinato in prezzo che si paga in denaro, considerando come bisogno il denaro stesso. Più che altro non la trovo una teoria corretta. Un conto se io ti do del vino che produco e che tu non hai in cambio della birra che tu produci e che io non ho, perché in questo caso sì che si valuta anche il grado di soddisfazione, in quanto magari a me la birra non interessa perché non mi piace, ma tu vuoi vino e hai solo birra da darmi in cambio. Oppure nel caso io abbia pane e tu prosciutto, dopo uno scambio entrambi avremo un panino al prosciutto ed entrambi ci abbiamo guadagnato dallo scambio. Ma questo è baratto.

Tutti questi economisti, nel generare le loro teorie, o quelli di oggi nel spiegare quelle teorie, su questo si basano e infatti fanno questo tipo di esempi. Questo è insensato, in quanto il baratto già non esisteva più allora ne tantomeno oggi. Il denaro ha preso il posto di uno dei due beni che si scambia.
Coloro che sostengono che gli economisti sembrano esserselo dimenticato, secondo me hanno ragione, è vero! Si sono dimenticati che non barattiamo più, che da una parte c’è il denaro. Infatti il denaro è considerato un bene, tale e quale al prodotto. Se concettualmente è corretto, perché a tutti gli effetti sostituisce uno dei due prodotti in un baratto, in realtà la faccenda è meno semplice, perché il denaro non è un bene qualunque soggetto ad utilità marginale, a grado di soddisfazione, ne tantomeno ha una utilità marginale decrescente! Il denaro non raggiunge mai il punto di sazietà, non diventerà mai inutile, perché con esso si può comperare qualunque cosa, lo si scambia con ogni tipo di bene. E’ come se in un baratto io avessi il prodotto migliore, quello che tutti vogliono. In questo caso, se fosse un prodotto, varrebbe molto e lo scambierei con parsimonia. Invece il denaro di per sé non vale niente, anzi, deve valere solo quello che vale il prodotto che mi accingo ad acquistare. Esso non deve, non dovrebbe, influenzare il commercio come se fosse un bene scarso (inteso in quantità), di valore, che tutti vogliono, con elevata utilità e nessuna utilità marginale decrescente!

Infine la libera concorrenza perfetta. C’è sempre sta libera concorrenza, e fin qua ok, ma perfetta pure… non si è mai vista, non esiste, è un utopia. Eppure tutti i calcoli, tutti i ragionamenti, tutte le filosofie si basano su questa perfezione. Il mercato non è perfetto, non lo era allora e ancor meno oggi. Secondo me non va bene neanche per farci le previsioni, sono teorie empiriche su dati empirici. Il mercato si equilibra economicamente da solo, ma quando mai? Senza interventi esterni di alcun tipo? Ok, e come gli impedisci gli interventi esterni? La pubblicità, che è l’anima del commercio, è un intervento esterno: da sola è capace di far vendere il prodotto peggiore al prezzo peggiore rispetto ad un prodotto direttamente concorrente più economico e migliore che però non si pubblicizza. Il passaparola e un intervento esterno. Il finanziamento dello stato, di una banca, di un capitalista o di un azionario, tutti interventi esterni. Il Capitalismo di per sé è un intervento esterno, perché chi ha il denaro e/o i capitali, può sbilanciare in qualunque momento questo delicatissimo equilibrio. Il mercato finanziario è un intervento esterno. Allora come si può, anche solo teoricamente, supporre all’esistenza di una concorrenza perfetta? Quindi, caduta la perfezione, il mercato è equilibrato? NO!

5. Storia dell’Economia (Karl Marx)

Karl Heinrich Marx (1818 – 1883) è stato un filosofo, economista, storico, sociologo e giornalista tedesco.

A portrait of Karl Marx.

Karl Marx. (Photo credit: Wikipedia)

Il suo pensiero è incentrato, in chiave materialista (il materialismo è la concezione filosofica per la quale l’unica realtà che può veramente essere detta esistere è la materia e tutto deriva dalla sua continua trasformazione), sulla critica dell’economia, della politica, della società e della cultura a lui contemporanea. Teorico del socialismo scientifico e della concezione materialistica della storia, è considerato tra i filosofi maggiormente influenti sul piano politico, filosofico ed economico nella storia del Novecento.

Il Capitale (Das Kapital – I volume 1867 e successivi II e III volume) è l’opera maggiore di Karl Marx ed è considerata il testo-chiave del marxismo.
Per Marx l’intera ricchezza della società capitalistica si presenta come una “immane raccolta di merci”. Le merci sono utili (valore d’uso) e si posso scambiare (valore di scambio). Il valore di scambio è il rapporto secondo il quale una certa quantità di valori d’uso di una specie viene scambiata con una certa quantità di valori d’uso di un’altra. Tutte le merci hanno in comune il fatto che sono prodotti del lavoro.
La grandezza del valore di una merce è così determinata dalla quantità (cioè dal tempo) di lavoro socialmente necessario per la sua produzione. Le merci possono misurare i loro valori in comune in una stessa merce specifica, ossia in danaro.

1. CAPITALISMO = raccolta di MERCI –> prodotte dal LAVORO –> quantità/tempo del lavoro = VALORE –> misurato in DANARO

Quindi il valore della merce è determinato dal valore del lavoro (che è anch’esso una merce), questi valori si misurano in denaro.

È noto a tutti che nella circolazione capitalistica il danaro aumenta. Ma da dove scaturisce quest’aumento? Non dallo scambio delle merci, che è scambio fra equivalenti, e neppure da un aumento dei prezzi, perché i guadagni e le perdite reciproche del venditore e del compratore si compenserebbero. Per realizzare quest’aumento il possessore di danaro deve trovare una merce il cui valore d’uso costituisca un processo di creazione di valore.
Questa merce esiste ed è la forza-lavoro dell’uomo: il suo uso è il lavoro e il lavoro crea il valore. Il possessore di danaro compra la forza-lavoro al suo valore, cioè in questo caso dal costo del mantenimento dell’operaio e della sua famiglia. Il possessore di danaro “usa” o “consuma” la forza-lavoro acquistata obbligandola per contratto a lavorare un determinato quantitativo di ore, ma accade che in alcune ore l’operaio crea un prodotto che basta a coprire le spese del proprio mantenimento. Sicché nelle ore rimanenti fornirà al capitalista un prodotto “supplementare” e non pagato: il plusvalore.

2. CAPITALISMO = acquista FORZA-LAVORO –> sfrutta LAVORO –> crea PLUSVALORE

Quindi il valore del lavoro è pagato in una quantità di denaro inferiore rispetto al suo reale valore e producendo un ulteriore valore si genera un surplus del valore stesso (plusvalore).

Ma al capitalista non basta il possesso delle merci prodotte. Egli ha bisogno della sua ricchezza in danaro, per ingrossare continuamente il suo capitale e garantire la sua sopravvivenza come capitalista, oltre che per aumentare i suoi consumi personali. Le merci vanno dunque vendute. Ma sul mercato trova l’anarchia più completa: la lotta mortale con tutti i suoi concorrenti, la necessità vitale di conquistare il mercato, di vendere sempre di più, che si ripercuote nella corsa alla produzione.

3. CAPITALISMO = vendita delle MERCI –> VALORE = DANARO e PLUSVALORE = PROFITTO

Cioè la ricchezza del capitalismo sta nel denaro ricavato dal plusvalore che ne determina il reale profitto. Da questo si deduce anche che, essendo la ricchezza ottenuta dal plusvalore, ed essendo il plusvalore ottenuto a sua volta dalla sfruttamento della forza-lavoro, è proprio quest’ultima, il lavoro dell’uomo, ad essere la vera ricchezza della società. Marx fu il primo a comprendere che la ricchezza di uno stato sta nel lavoro dei suoi cittadini che sono i produttori di tale ricchezza. Quindi ne Re e Monarchi, ne Nobili e Aristocratici, ne Borghesi e Capitalisti, ma i cittadini lavoratori sfruttati: il proletariato.

Questo sviluppo convulso dell’economia determinato dall’unica molla del profitto conduce alle crisi cicliche di sovrapproduzione: alla dilatazione della produttività e delle ricchezze seguita da contrazioni e sprechi periodici. Infatti, “il mercato si allarga più lentamente della produzione, o nel ciclo che il capitale percorre durante la sua riproduzione – ciclo in cui non si riproduce semplicemente, ma su scala allargata, descrivendo non un circolo, ma una spirale – viene un momento in cui il mercato sembra essere troppo stretto per la produzione. Ciò avviene al termine del ciclo. Ma il capitalismo non patisce soltanto di queste malattie intermittenti. La concentrazione di capitali e la crescente applicazione all’industria delle scoperte scientifiche e tecniche comportano, insieme con l’aumento della produttività e quindi del plusvalore, anche un più rapido accrescimento del capitale costante (valore dei mezzi di produzione, macchinari) rispetto al capitale variabile (valore della forza-lavoro impiegata), e perciò una “caduta tendenziale del saggio del profitto” (cioè del rapporto tra il plusvalore e tutto il capitale, non soltanto la sua parte variabile). Questa tendenza rende sempre meno appetibili gli investimenti produttivi di capitale eccedente e determina un progressivo ristagno dell’economia: destino del modo di produzione capitalistico che aggravando l’insoddisfazione proletaria promuove la tensione rivoluzionaria per il socialismo.

ECONOMIA CAPITALISTA  = tendenza al maggior PROFITTO –> aumento CAPITALE COSTANTE (macchinari, materie prime) –> diminuzione CAPITALE VARIABILE (forza-lavoro, salari) = SOVRAPPRODUZIONE –> riduzione DOMANDA –> CROLLO del PROFITTO –> CRISI ECONOMICA –> TENSIONI RIVOLUZIONARIE

Secondo Marx la caduta tendenziale del saggio del profitto è dovuta al fatto che solo la forza-lavoro dell’uomo è generatrice di plusvalore e quindi di profitto, in quanto quella dei macchinari trasferisce il suo valore nella merce senza generazione di plusvalore. Quindi ne deduco che se il valore della merce è direttamente legato alla quantità/tempo di lavoro, a minor tempo corrisponde minor valore della merce prodotta. I macchinari tendono ad accelerare il processo produttivo, creando maggiori quantità di merci in minor tempo, questo significa che le merci prodotte acquistano un valore sempre minore. Inoltre se sempre più macchine prenderanno il posto di milioni di lavoratori, significa che ci saranno sempre più lavoratori senza stipendio che non potranno comprare cioè che viene prodotto. Tutto ciò porta ad un enorme produzione di merci di basso valore che però verranno acquistate sempre meno a causa dell’impoverimento del popolo, quindi il plusvalore, che è la reale fonte di ricchezza dell’economia capitalista, tenderà a ridursi sempre di più in maniera drastica. Come in effetti possiamo notare nella società moderna, il valore delle singole merci è andato via via diminuendo, e se da un lato le rende accessibili a tutti, dall’altro se ne producono troppe per cercare di compensare la perdita del plusvalore dal singolo prodotto, cercando di riacquistarlo nella quantità di prodotti. Ma troppe merci porta alla sovrapproduzione, quindi ad una riduzione della domanda. Questo porta ad un ristagno economico, riducendo il profitto capitalista e, di conseguenza, si riduce il capitale variabile, ossia il monte salari, che porta ad un ulteriore calo della ricchezza che colpisce i lavoratori, che genera a sua volta un calo ancora maggiore della domanda. Una valanga di eventi che porta alla crisi economica ciclica e periodica. Mentre per quanto riguarda il fatto che il lavoro automatizzato ha sostituito tanta manodopera aumentando la povertà del popolo è stato indubbiamente vero, è accaduto. Ma oggi sappiamo che questo è inevitabile, è il progresso e l’uomo si è attrezzato con lavori alternativi, quindi in realtà è stato solo un problema di passaggio. Ciò non toglie che lo vedremo ancora e ancora ripresentarsi, ad ogni passo avanti della tecnologia, ci saranno posti di lavoro che saltano.

Perché secondo Marx il Capitalismo è destinato a cadere? Perché alla fine del ciclo egli vede la rivolta del proletariato, le tensioni rivoluzionarie?
Perché se la ricchezza la genera il lavoro dell’uomo, egli prima o poi è destinato ad accorgersene e a riprendersi ciò che gli spetta. L’uomo capirà che può fare a meno dei capitalisti ed autogestirsi un impresa, dividendo tutti gli utili fra chi ci lavora, così ogni singolo operaio diventa il possessore del suo Plusvalore. Questo è il Socialismo.
E in quegli anni le rivolte ci sono state, eccome. Ma sono finite male, i potenti erano troppo potenti e hanno vinto. C’è anche da dire comunque che oggi esistono realtà aziendali con questa impronta socialista e funzionano bene.

Un altro concetto contenuto, è quello che qualunque Capitalista, parte sempre dall’investimento iniziale, in salari o in macchinari o in materie prime o in tutte e tre, per produrre le sue merci e arrivare al profitto e al risparmio per poi reinvestire in ulteriori salari, macchinari e materie prime:

il ciclo capitalistico non è quello semplice, descrivibile con la formula M.D.M. (merce-denaro-merce); ma il ciclo economico del capitalismo è descrivibile con la formula D.M.D. (denaro-merce-più denaro), in quanto nella società borghese abbiamo un soggetto che investe denaro in una merce per ottenere più denaro di quanto non abbia investito.

Questo sistema si ripete sempre e non si sovverte. In quale momento della storia siamo riusciti a sovvertirlo arrivando all’odierna Europa che chiede prima di risparmiare? E’ quello che voglio scoprire.

Concludo l’analisi di Marx con l’unica critica che mi sento di condividere:

Nel XXI secolo papa Benedetto XVI, nell’enciclica Spe Salvi ha dichiarato:

«Marx […] ha dimenticato che l’uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l’uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l’economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l’uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli», aggiungendo che «Marx ha indicato con esattezza come realizzare il rovesciamento. Ma non ci ha detto come le cose avrebbero dovuto procedere dopo».

Nel bene e nel male l’uomo rimane sempre uomo e la libertà del singolo è molto soggettiva. Un mondo socialista come lui l’ha immaginato è un mondo davvero molto interessante e anche possibile, ma con questo limite: non è e non sarà per tutti perché non tutti gli uomini possono condividere la stessa idea. Il denaro è potere e il potere ammicca all’uomo, e l’uomo, soprattutto se moralmente debole, cede al suo fascino come a quello di una bella donna. Supponendo un mondo socialista, ci saranno sempre quegli uomini che tenteranno di rimpossessarsi di un capitale e lo otterranno. La tendenza a distinguersi, ad avere successo, a sopraelevarsi dagli altri è innata in molti uomini e che questo crei disagio negli altri è ininfluente per loro. Come nella vita il male e il bene sono in costante conflitto ed equilibrio, così l’umanità rimarrà in bilico fra capitalisti e socialisti. L’unica possibilità è la coesione contemporanea dei due sistemi, in modo da abbracciare le libertà soggettive di ogni tipo.