6. Storia dell’Economia (Marginalismo e Neoclassici)

L’epoca degli economisti Classici si chiude più o meno con Marx. Marx disse soprattutto una cosa: il Capitalismo imploderà su se stesso. Nascono qui (fra ‘800 e ‘900) una serie di economisti che reagiscono a Marx, prendono il nome di Neoclassici e dicono che il Capitalismo funziona benissimo perché è capace di auto-regolarsi.

Convenzionalmente, la scuola dell’economia neoclassica si data a partire dal 1871-1874, anni di pubblicazione delle prime opere sistematiche di William Stanley Jevons, Carl Menger e Léon Walras. Il marginalismo combatte sia lo sviluppo marxista del pensiero degli economisti classici sia la scuola storica tedesca dell’economia.In economia il marginalismo è una corrente di pensiero economico sviluppatasi tra il 1870 e 1890. La metodologia marginalista è quella che ancora oggi dopo il Monetarismo esercita maggiore influenza rispetto a quella classica e marxista.
Il nucleo centrale dell’analisi marginalista è da individuare nel rifiuto dell’idea classica secondo cui il valore di un bene coincide con il lavoro richiesto per la sua produzione.
Al contrario i marginalisti individuano il valore di un bene nell’utilità marginale che il consumatore trae dal godimento dello stesso, cioè il valore del prodotto riflette il grado di soddisfazione soggettiva che i consumatori attribuiscono ai diversi prodotti. La soddisfazione, o “utilità”, tenderà a diminuire con il consumo di ogni unità aggiuntiva dello stesso bene.

William Stanley Jevons

William Stanley Jevons (Photo credit: Wikipedia)

William Stanley Jevons (1835 – 1882) è stato un economista e logico britannico.

Per Jevons l’economia è una scienza del comportamento umano e deve basarsi sulla psicologia.

Nella sua Teoria dell’economia politica (1871), si propone di trattare l’economia come un calcolo matematico del piacere e del dolore e ne definisce l’oggetto come la massimizzazione della felicità mediante l’acquisto di piacere al minor costo in termini di dolore.

Un bene è un qualsiasi oggetto, sostanza, azione o servizio che può procurare piacere o alleviare un dolore; l’utilità è la qualità grazie alla quale un bene procura piacere o allevia un dolore. L’utilità, peraltro, non è inerente ai beni, ma è una loro circostanza che emerge in relazione ai bisogni umani. Soprattutto, l’utilità diminuisce con l’aumentare del consumo di un bene e viceversa.
Un bene può soddisfare diversi bisogni. La sua distribuzione su diversi utilizzi deve essere tale che la diminuzione di un utilizzo non comporti un dolore più intenso del piacere derivante dall’aumento di un altro.

Jevons stabilisce anche una Legge di Indifferenza, secondo la quale in un dato momento e in un dato mercato non possono esservi due prezzi diversi per lo stesso tipo di articolo. Da essa deriva che il rapporto secondo cui vengono scambiate le ultime quantità infinitesime di due merci in un atto di scambio deve essere uguale al rapporto secondo cui vengono scambiate le quantità complessive di esse. Ciò può accadere soltanto se nel mercato vi è una libera concorrenza perfetta  (è una forma di mercato caratterizzata dall’impossibilità degli imprenditori di fissare il prezzo di vendita dei beni che producono, i quali prezzi derivano esclusivamente dall’incontro della domanda e dell’offerta, che a loro volta sono espressione dell’utilità e del costo marginale).
Il valore, per Jevons, è sempre relativo: il valore di un bene non è altro che il rapporto secondo cui viene scambiato con altri, a sua volta uguale all’inverso del rapporto tra i gradi finali di utilità. Il prezzo è la quantità di moneta a corso legale con cui un bene può essere scambiato.

Carl Menger

Carl Menger (Photo credit: Wikipedia)

Carl Menger (1840 – 1921) è stato un economista austriaco (essendo Nowy Sącz all’epoca facente parte dell’Austria, mentre oggi è in Polonia).

Con la pubblicazione avvenuta nel 1871 de Principles of Economics, ovvero l’opera che ha gettato le basi della scuola austriaca di economia, di cui è il fondatore, Menger confutò la classica teoria del valore-lavoro sviluppata da Adam Smith e David Ricardo con sviluppo della teoria dell’utilità marginale.

L’utilità marginale di un bene è concetto cardine della teoria neoclassica del valore in economia ed è definibile come l’incremento del livello di utilità, ovvero della soddisfazione che un individuo trae dal consumo di un bene, ricollegabile ad aumenti marginali nel consumo del bene dato e costante il consumo di tutti gli altri beni. L’utilità marginale è, quindi, decrescente poiché al dimiuire di un bisogno diminuisce anche progressivamente il piacere ricavabile dalle dosi successive di un bene (principio dell’utilità marginale decrescente).

La legge del utilità marginale decrescente afferma che all’aumentare del consumo di un bene, l’utilità marginale di quel bene diminuisce.
Una volta raggiunto il punto di sazietà eventuali altri incrementi del consumo del bene probabilmente apporteranno una disutilità, diminuiranno cioè il livello di soddisfazione individuale. In corrispondenza del punto di sazietà l’utilità marginale è nulla ed il suo livello di utilità è massimo.

Menger chiarì che lo scopo della teoria economica era lo studio dei beni “scarsi”, i beni cioè che servono al perseguimento degli obiettivi degli uomini, ma che non sono disponibili in quantità sufficiente per realizzarli tutti. Di conseguenza, l’essenza dell’economia è l’azione in condizioni di scarsità.

Da questo principio Menger derivò l’intera teoria dei prezzi, operando un ribaltamento concettuale radicale rispetto alle precedenti teorie, secondo cui il costo di ogni merce dipendeva dalle spese monetarie necessarie a completarne la produzione. Menger ribaltò la faccenda, dividendo i beni in “ordini”: i beni del prim’ordine sono quelli che soddisfano un bisogno immediato, quelli del secondo ordine sono quelli necessari a produrre i beni del prim’ordine, eccetera. I beni del prim’ordine sono il “fine” dell’economia, in quanto i beni di ordine superiore rappresentano solo mezzi per raggiungere lo scopo, il conseguimento del fine. Ne deriva che il valore di un mezzo di produzione dipende dal contributo che può effettivamente dare alla produzione dei beni del prim’ordine, e non viceversa.

Viene quindi a ribaltarsi anche il rapporto tra fattori soggettivi e fattori oggettivi: sono la valutazione del fine, e la valutazione dell’adeguatezza del mezzo, due elementi “soggettivi”, perché individuali, che determinano i costi, e non sono gli immaginari costi “oggettivi” a determinare i prezzi.

Sempre dal principio del valore soggettivo si riesce a spiegare il perché dello scambio. Se si ritenesse, infatti, che il valore sia una caratteristica della merce, e non una valutazione dell’individuo che quella merce domanda o offre, lo scambio non avrebbe nulla da contribuire al valore: solo la produzione sarebbe un atto significativo per l’economia. Ma non è vero: se un individuo ha un abbondanza di un bene A e mancanza di uno B, e un altro ha un abbondanza di un bene B e mancanza di un bene A, scambiando i beni essi possono ottenere entrambi un bene superiore o completo AB: il risultato è vantaggioso per entrambi. Ma questo perché il valore è soggettivo: se fosse oggettivo, insito nella merce, lo scambio non potrebbe influenzare il valore. Se lo scambio dovesse avvenire solo tra merci di ugual valore (altrimenti, chi darebbe via un qualcosa per ottenerne un’altra di valore inferiore?), non ci sarebbe alcun vantaggio.

Léon Walras

Léon Walras (Photo credit: Wikipedia)

Marie Esprit Léon Walras (1834 – 1910) è stato un economista francese. Fu il “padre” della prima formulazione completa della teoria di equilibrio economico generale.

Nel suo scritto più importante: Éléments d’économie politique pure, ou théorie de la richesse sociale, (1874) Walras edifica la teoria dell’equilibrio economico generale che ha per obiettivo quello di spiegare la determinazione congiunta delle scelte di produzione e di consumo, e dei prezzi, nell’intera economia. La teoria deriva le sue conclusioni sulla base delle scelte di agenti individuali (consumatori, imprese) che operano in ciascun mercato.

Se ciascun agente soddisfa il suo vincolo di bilancio, cosicché il valore dei beni che compra è uguale al valore dei beni che offre, allora il valore totale delle vendite eguaglia il valore totale degli acquisti.
A seconda delle preferenze dei consumatori, la domanda di un bene sarà allora influenzata dalla variazione nel salario dei consumatori stessi, andando a incidere nuovamente sul prezzo del bene, e così via. Dunque, la determinazione del prezzo di un singolo bene risulta potenzialmente collegata a quella del prezzo di qualunque altro bene nell’intera economia.
La legge di Walras implica che, anche se esistono eccessi di domanda o offerta nei singoli mercati, la somma di questi deve essere nulla. Così, se in un mercato c’è un eccesso di domanda, deve esistere in un altro mercato un eccesso di offerta.
Corollario importante del teorema è quello secondo cui, se n-1 mercati sono in equilibrio, l’n-esimo mercato è anch’esso in equilibrio.

Walras edifica una teoria del valore secondo la quale il principio per la determinazione dei valori di scambio (prezzi) è fondato sul concetto di utilità marginale, che Walras esprime in termini di unità fisica di uno di essi. Walras arrivò a dimostrare come, in condizioni di concorrenza perfetta, è possibile determinare un sistema di prezzi d’equilibrio che comporta l’eguaglianza tra domanda ed offerta in tutti i mercati, nonché l’eguaglianza tra costo di produzione e prezzo di vendita per ciascun bene e per ciascun imprenditore.

Nel modello walrasiano, infatti, gli scambi di merci avvengono soltanto quando sia stato raggiunto un prezzo di equilibrio che assicuri la perfetta coincidenza tra domanda ed offerta: tale prezzo si forma soltanto in seguito a variazioni della domanda e dell’offerta in corrispondenza di diversi livelli di prezzi. Riprendendo l’esempio walrasiano si potrebbe immaginare l’esistenza di un ipotetico banditore d’asta che grida un prezzo e guarda se la domanda è uguale all’offerta. Se c’è una differenza, grida un prezzo più alto quando l’offerta è insufficiente e un prezzo più basso nel caso contrario. Dopo alcuni tentativi si giunge alla fissazione di un prezzo che assicura il perfetto equilibrio tra domanda e offerta.

In tal modo, viene eliminato il mistero della “mano invisibile” in quanto non ce n’è più esigenza: mentre in Smith e nei classici, l’equilibrio era determinabile in due stadi – il primo era costituito dalla dimostrazione dell’esistenza logica dell’equilibrio, il secondo dalla dimostrazione del modo per arrivarvi – con Walras i due stadi sono diventati uno solo: dato che la dimostrazione dell’esistenza logica dell’equilibrio incorpora anche come arrivarvi, la “mano invisibile” non è più necessaria.

Riassumendo, i tre economisti enunciarono indipendentemente l’uno dall’altro, teorie simili fra di loro:

  1. il valore di un bene non può essere imputato esclusivamente al valore-lavoro e al costo che si ha per produrlo, ma va ricercato principalmente nella sua utilità marginale, cioè il valore del prodotto è soggettivo al grado di soddisfazione che il consumatore attribuisce al prodotto; è un bisogno che deve colmare e sarà decrescente man mano che egli soddisfa questo bisogno; inoltre esso è strettamente correlato con gli altri beni presenti sul mercato, compresi quelli per produrre il bene stesso;
  2. il commercio, lo scambio che avviene di questi beni, è relazionato all’utilità dei beni stessi e al bisogno che se ne ha e risulta vantaggioso per entrambi gli interlocutori di tale scambio; quindi il valore è relativo allo scambio in sé, al bisogno reciproco;
  3. in un mercato di libera concorrenza perfetta il prezzo dei beni è legato al rapporto domanda-offerta, espressioni dell’utilità e del costo marginale, rapporto in continua variazione; il prezzo si determina automaticamente dopo alcuni tentativi che giungono al perfetto equilibrio tra domanda e offerta, cioè un equilibrio economico generale.

Quindi l’Equilibrio Generale dice: tutte le merci e servizi vivono in un loro equilibrio naturale, i loro prezzi si regolano da soli. Se il prezzo di una cosa aumenta, molti correranno a produrla, ma così ce ne sarà troppa sul mercato e quindi il prezzo ‘naturalmente’ scenderà. Se invece il prezzo di una cosa crolla, nessuno vorrà produrla, e così ce ne sarà poca e il prezzo ‘naturalmente’ si alzerà. In sostanza, ciò significa che il Mercato non deve avere interferenze da parte di nessuno perché si regola da solo.

Nella teoria dei Neoclassici esiste in cima al mercato un direttore d’asta che prende le offerte dei prezzi per ogni merce o servizio, e alla fine della giornata i prezzi stabiliti saranno quelli giusti, quelli in ‘equilibrio’ sempre. Questa roba poteva funzionare quando veramente si viveva di scambi granoturco o carne o ferro. Non oggi dove il denaro ha una funzione centrale. Infatti sti Neoclassici sono notori perché nelle loro astrusità economiche non considerano mai che il denaro esiste!

Dunque il libero mercato si regola da solo, ma c’è un direttore d’asta. Nella mia immensa ignoranza non riesco a comprendere come si possa partire da un presupposto (la libertà del mercato) per concludere con quello opposto (banditore d’asta). L’unica comprensione che ci attribuisco è che questo direttore d’asta sia un invenzione morale tanto quanto la “mano invisibile” di Smith. Nella realtà del mercato non esiste nessun direttore generale dei prezzi, per quanto ne so e ad esclusione di quello finanziario che non conosco, ma l’unica “direttiva” è il confronto tra il mercato stesso e il proprio bilancio, unito al rischio (perdita di profitto) o l’imbroglio (nel prodotto, il “bidone” per intendersi) se si fa il prezzo più basso, oppure all’eccesso di qualità o alla truffa (nel prezzo) se si fa quello più alto.

Comunque, per quanto riguarda la nuova valutazione del valore, e di conseguenza del prezzo di un bene, basata non solo sul costo in lavoro, tempo e denaro per produrlo ma anche sulla sua utilità e valore intrinseco in quanto più o meno necessario ai consumatori e al loro grado di soddisfazione soggettiva, la trovo una valutazione corretta a patto che si tengano in considerazione tutti questi elementi, perché la nuova osservazione è più un valore aggiunto. Però è un valore aggiunto che, secondo me, si può attribuire soltanto ai beni fisici, ai prodotti che si consumano, che si usano. Non al denaro stesso.

Nel caso del valore relativo nel commercio, o scambio, la considero una teoria nata nell’epoca sbagliata, in quanto sembra una considerazione fatta per il commercio del baratto, cioè del diretto scambio di oggetti e beni, non di una compravendita beni-denaro, in quanto per la parte che riceve il denaro è lapalissiano che sia vantaggioso, che ne riceva un utilità, che risponda ad un bisogno. Tutti hanno bisogno di denaro. Quindi non comprendo come si possa stabilire un valore determinato in prezzo che si paga in denaro, considerando come bisogno il denaro stesso. Più che altro non la trovo una teoria corretta. Un conto se io ti do del vino che produco e che tu non hai in cambio della birra che tu produci e che io non ho, perché in questo caso sì che si valuta anche il grado di soddisfazione, in quanto magari a me la birra non interessa perché non mi piace, ma tu vuoi vino e hai solo birra da darmi in cambio. Oppure nel caso io abbia pane e tu prosciutto, dopo uno scambio entrambi avremo un panino al prosciutto ed entrambi ci abbiamo guadagnato dallo scambio. Ma questo è baratto.

Tutti questi economisti, nel generare le loro teorie, o quelli di oggi nel spiegare quelle teorie, su questo si basano e infatti fanno questo tipo di esempi. Questo è insensato, in quanto il baratto già non esisteva più allora ne tantomeno oggi. Il denaro ha preso il posto di uno dei due beni che si scambia.
Coloro che sostengono che gli economisti sembrano esserselo dimenticato, secondo me hanno ragione, è vero! Si sono dimenticati che non barattiamo più, che da una parte c’è il denaro. Infatti il denaro è considerato un bene, tale e quale al prodotto. Se concettualmente è corretto, perché a tutti gli effetti sostituisce uno dei due prodotti in un baratto, in realtà la faccenda è meno semplice, perché il denaro non è un bene qualunque soggetto ad utilità marginale, a grado di soddisfazione, ne tantomeno ha una utilità marginale decrescente! Il denaro non raggiunge mai il punto di sazietà, non diventerà mai inutile, perché con esso si può comperare qualunque cosa, lo si scambia con ogni tipo di bene. E’ come se in un baratto io avessi il prodotto migliore, quello che tutti vogliono. In questo caso, se fosse un prodotto, varrebbe molto e lo scambierei con parsimonia. Invece il denaro di per sé non vale niente, anzi, deve valere solo quello che vale il prodotto che mi accingo ad acquistare. Esso non deve, non dovrebbe, influenzare il commercio come se fosse un bene scarso (inteso in quantità), di valore, che tutti vogliono, con elevata utilità e nessuna utilità marginale decrescente!

Infine la libera concorrenza perfetta. C’è sempre sta libera concorrenza, e fin qua ok, ma perfetta pure… non si è mai vista, non esiste, è un utopia. Eppure tutti i calcoli, tutti i ragionamenti, tutte le filosofie si basano su questa perfezione. Il mercato non è perfetto, non lo era allora e ancor meno oggi. Secondo me non va bene neanche per farci le previsioni, sono teorie empiriche su dati empirici. Il mercato si equilibra economicamente da solo, ma quando mai? Senza interventi esterni di alcun tipo? Ok, e come gli impedisci gli interventi esterni? La pubblicità, che è l’anima del commercio, è un intervento esterno: da sola è capace di far vendere il prodotto peggiore al prezzo peggiore rispetto ad un prodotto direttamente concorrente più economico e migliore che però non si pubblicizza. Il passaparola e un intervento esterno. Il finanziamento dello stato, di una banca, di un capitalista o di un azionario, tutti interventi esterni. Il Capitalismo di per sé è un intervento esterno, perché chi ha il denaro e/o i capitali, può sbilanciare in qualunque momento questo delicatissimo equilibrio. Il mercato finanziario è un intervento esterno. Allora come si può, anche solo teoricamente, supporre all’esistenza di una concorrenza perfetta? Quindi, caduta la perfezione, il mercato è equilibrato? NO!